Ritornare per restare? L'esperienza di Silvia tra i returnees.

Ritornare per restare? L'esperienza di Silvia tra i returnees.

Silvia Orri è casco bianco in Uganda dal mese di novembre. Da subito ha sentito l'esigenza di raccontarsi perché scrivere, tante volte, serve anche a fare ordine, a riflettere su ciò che si è vissuto e condividerlo. Queste righe le ha scritte dopo aver trascorso una settimana insieme ai returnees, ai tanti bambini karimojong ritrovati a Kampala e oggi reinseriti nelle loro famiglie d'origine in Karamoja. 


"Il primo ostacolo è l'interazione, il trovare una sorta di intesa, un patto tacito grazie al quale siamo consapevoli che stiamo comunicando, in qualche modo.
Non è un problema di lingua, di cultura diversa o di abitudini opposte come si potrebbe erroneamente e troppo scontatamente pensare.
È qualcosa che riguarda più strettamente la sopportazione umana, la storia di soprusi ed oppressioni, la resilienza, tutto concentrato in uno sguardo forte e maturo, tosto e risoluto.
Non è lo sguardo di un anziano capo villaggio, di un attivista politico, di un giornalista di guerra, è lo sguardo di un bambino, anche se mi viene difficile definirlo bambino.
In fondo chi è un bambino? Colui che ha meno di 18 anni? Definizione troppo anagrafica ed insensibile. Colui che entra in un processo di apprendimento famigliare e scolastico? Forse...ma non per tutti, come ben sappiamo. Colui che non definisce lo scandire del tempo, che agisce secondo la propria spontaneità, a cui piace giocare, che trapassa le difficoltà relazionali dovute ad esperienze difficili e dolorose? Questa volta nemmeno, purtroppo...
Abbiamo passato una settimana insieme, non eravamo solo io e lui, faceva parte di un gruppo di 53 minori non accompagnati riportati dalla capitale, Kampala, alla loro terra di origine, il Karamoja, per essere reintegrati e ricominciare la loro vita qui, dopo aver trascorso mesi e mesi a mendicare, dormire per strada, supplicare cibo e subire violenze fisiche e mentali. Questo il progetto organizzato da Unicef qui in Uganda, denominato "Returnees".
La struttura in cui sono stati accolti si trova a Kobulin, nel distretto di Napak; è stato svolto un lavoro di una settimana per raccogliere i dati, le testimonianze, avere i contatti con i villaggi per riuscire, alla fine, a portare a termine il reinserimento famigliare.
Mi viene difficile descrivere le attività una dopo l'altra, i programmi, i risultati ottenuti, quello che "la carta" dice che abbiamo svolto, concluso ed ottenuto.
I sentimenti di smarrimento e lontananza rispetto alle esperienze di questi bambini sono fortissimi e questo mi spinge a chiedermi come le mie parole ed i miei sguardi possano essere sinceri nei loro confronti.
È una fiducia che si costruisce molto lentamente.
La domanda che continuamente si presenta alla mia mente è se si stia veramente proponendo la chiave giusta per agevolare loro l'inizio di una vita migliore; non è facile il reinserimento in famiglie e comunità che intendono come stranieri questi bambini, lontani ormai da troppo tempo per essere considerati di nuovo come membri di un contesto sociale ed economico sviluppatosi durante la loro assenza.
Per questo credo che la sfida più grande, in qualsiasi contesto di accoglienza, sia quella di intendere tale accoglienza come un processo di lungo termine, che non finisce una volta soddisfatti i bisogni primari, anzi, è proprio lì che inizia il vero impegno, pratico ma anche umano, di lavoro di comunità.
La comunità infatti può essere una risorsa in grado nel lungo periodo di agevolare l'individuo nel raggiungimento di una piena autonomia e consapevolezza del contesto in cui vive.
Quello che si è fatto in questi giorni è certamente un successo, i bambini hanno toccato di nuovo le loro origini, hanno rivisto i colori, gli utensili, la natura con cui sono cresciuti e sicuramente hanno incrociato sguardi comprensivi e di affetto.
Ora sono con le loro famiglie, dormono e cucinano nei loro villaggi, si ambientano nel contesto che li ha fatti nascere ma che allo stesso tempo li ha respinti a causa di avversità che non permetteva loro di soddisfare bisogni necessari come la fame e l'educazione.
Per evitare che questa voglia di scappare si ripresenti, bisogna creare intorno a loro un contesto sano, salutare, sereno, che consenta loro di esprimersi, lavorando in sinergia con i leaders locali ed i villaggi adiacenti creando la consapevolezza che il presente di un bambino sarà in futuro l'equivalente di un territorio maturo, che saprà offrire ai propri abitanti una vita dignitosa e ricca di soddisfazioni".

In attesa di altre testimonianze, ringraziamo Silvia per il suo servizio e perché con questi sui scritti accorcia le distanze.